NEWS

Ostacoli finanziari nei servizi di accoglienza

Di fronte alla parola “accoglienza”, l’immaginario collettivo si ferma spesso ai confini delle strutture, alla “sicurezza” che potrebbe trasmettere la semplice pronuncia della parola. Ma dentro gli spazi di accoglienza, che vanno ben oltre le mura dei centri e dei servizi territoriali, si consuma una quotidianità fatta di desideri e aspettative che sono spesso invisibili nella comunicazione mainstream. Una condizione che assume sfumature peculiari quando a viverla sono ragazzi e ragazze minorenni, arrivati in Italia senza adulti di riferimento.

Uno spaccato interessante lo racconta Maria Colli, educatrice della Comunità Macondo, che accoglie minori stranieri non accompagnati a Milano, in due comunità differenziate per genere e progetto. «I ragazzi che accogliamo hanno quasi tutti 17 o 18 anni, spesso devono già lavorare, mandare soldi a casa, gestire una piccola economia personale – spiega Colli – ma nessuno ha mai insegnato loro come farlo. E noi operatori non siamo messi molto meglio: non abbiamo strumenti, formazione, né linee guida chiare».

Sopravvivere con 50 euro

Nel concreto, le differenze tra le due comunità si fanno sentire anche sul piano economico. Le ragazze accolte nel Sistema di accoglienza e integrazione (SAI) femminile ricevono da regolamento il “pocket money”, una somma mensile prevista fin da subito. I ragazzi della comunità educativa maschile, invece, non avrebbero diritto a nulla. «Abbiamo deciso di dare loro una piccola mancia: 50 euro al mese. È poco, e spesso finisce in pochi giorni», racconta Colli. «C’è chi li spende tutti subito, magari anche in sigarette, che diventano una valvola di sfogo contro lo stress. Altri faticano a scegliere tra una ricarica telefonica e una pizza con gli amici. Il confronto con gli altri ragazzi è straziante, invalidante».

Alcuni tentano di risparmiare. Altri no. «Le ragazze, forse perché più grandi o più abituate a dover far quadrare i conti, riescono a darsi obiettivi – una bici, dei libri – e pianificano. I ragazzi, invece, spesso spendono tutto subito o mandano tutto a casa. Si sentono in debito con la famiglia, e quel peso li schiaccia».

Prudenza

Quando arrivano in comunità, i minori stranieri non accompagnati mostrano una conoscenza molto scarsa – se non del tutto assente – degli strumenti finanziari di base: conto corrente, carte prepagate, risparmio, strumenti digitali come lo Spid. «L’idea di avere un conto in banca è spesso qualcosa di vago, astratto – racconta Maria Colli –. Non ne conoscono i meccanismi, i costi, i vincoli. Di solito iniziamo a parlarne solo quando nasce un bisogno pratico, come l’apertura di un conto per ricevere uno stipendio». Ma questo approccio reattivo rischia di arrivare troppo tardi, quando sarebbe invece fondamentale impostare fin dall’inizio un percorso educativo graduale.

Solo recentemente, gli operatori stanno cercando di anticipare i tempi, introducendo questi temi già nei primi mesi di accoglienza. «È un cambio di passo necessario, perché se parli di soldi solo quando arrivano i soldi, rischi che l’impatto sia troppo forte. I ragazzi vanno formati prima, con esempi semplici e quotidiani». Tuttavia, la mancanza di materiali didattici specifici, linee guida condivise e una formazione strutturata per gli operatori rende ancora troppo casuale e disomogeneo questo passaggio educativo, lasciando molti ragazzi in balia dell’improvvisazione, proprio nel momento in cui si gioca il futuro della loro autonomia.

Conti bloccati, stipendi irraggiungibili

Ma il problema vero arriva quando entrano in gioco banche, tutori e burocrazia. «Aprire un conto corrente per un minore richiede il tutore legale e ogni banca ha regole diverse. A volte, addirittura, da una filiale all’altra cambiano le risposte. Abbiamo visto ragazzi che non potevano nemmeno prelevare i propri soldi senza l’autorizzazione del tribunale dei minori. E altri con conti aperti e poi bloccati perché il tutore è stato cambiato. Abbiamo risolto, ma c’è voluto del tempo».

Questa incertezza si traduce in ansia, senso di impotenza e – nei casi peggiori – nella perdita di opportunità: tirocini retribuiti, borse di studio, bonus. «Lo Spid, ad esempio, è richiesto per accedere a molte misure, ma spesso manca la documentazione necessaria per ottenerlo. Così, mentre si aspettano i documenti, si perdono i bandi».

Operatori senza bussola

E gli educatori? Navigano a vista. «Sto seguendo un corso di educazione finanziaria promosso da Ismu, ma è la prima volta che ci viene “offerta” una formazione del genere. Altrimenti ci arrangiamo tra di noi, provando a mettere delle regole – tipo accantonare il 70 per cento dello stipendio e lasciare il 15 per sé e il 15% da mandare a casa – ma non abbiamo un metodo, né strumenti condivisi. Io sono l’unica tra 5 educatori e due operatori a seguire il corso».

Una proposta concreta? «Un vademecum nazionale per l’apertura dei conti, materiali educativi pratici, magari in formato podcast o video, e un percorso formativo strutturato per noi operatori. Servirebbe anche un accompagnamento emotivo, perché quando parli di soldi, con questi ragazzi, escono fuori la paura del futuro, il peso della famiglia, la consapevolezza che “dopo” potrebbe esserci solo il lavoro in nero».

In assenza di una rete solida, ogni euro risparmiato diventa una piccola eredità. «Cerchiamo di accompagnarli verso l’autonomia – dice Colli – ma spesso ci sentiamo impotenti. E ci chiediamo se stiamo davvero facendo abbastanza. Forse, se ci dessero più strumenti, potremmo almeno provarci». 

Lo scenario di intervento del Progetto PAF! è questo, per poter garantire strumenti utili ad operatori, servizi finanziari e promuovere consapevolezza e protagonismo tra le persone con background migratorio che vivono nei diversi territori di intervento.

A cura di: Associazione Franco Verga